Nel magico scenario di Napoli, città che ha dato i natali a molti personaggi noti del panorama culturale, sociale e artistico vive Simonetta Santamaria, ritenuta da alcuni la Stephen King italiana. Simonetta, impegnata in questi giorni a partecipare al premio Giorgio Scerbanenco col suo ultimo romanzo “Dove il silenzio muore” , a chi chiede di lei e dei suoi romanzi esordisce dicendo:“ Vivo e scrivo a Napoli, col Golfo e Capri di fronte e il Vesuvio alla mia sinistra...”. Amante dei gatti, in particolare quelli neri, Simonetta trova il genere horror travolgente perché va a braccetto col noir, il thriller e il giallo, generi che scavano nel profondo della mente umana mettendone a nudo il lato oscuro. “Già, proprio quello che attende silente, accoccolato da qualche parte, dentro ognuno di noi. – afferma la scrittrice- Ogni tipologia di aberrazione ha il suo fascino…”. “ Il mio horror non è splatter, ma inserito nella vita quotidiana. – continua Simonetta - Non suscita quasi mai ribrezzo ma una sorda inquietudine, quella che ti fa scrutare nel buio, dopo che hai chiuso il libro. Non troverete mai un essere soprannaturale in un mondo fantastico ma un essere soprannaturale inserito in un contesto tangibile, tanto da sembrare egli stesso reale”. Moglie di un chirurgo di cui non esita mai a manifestare il prezioso contributo macabro-scientifico, Simonetta è madre di due figli. Alla sua famiglia ha dedicato Donne in Noir, per il sostegno che hanno manifestato. Simonetta scrive horror per dimostrare che anche le donne lo sanno fare. “Da piccola, mentre le altre bambine sognavano di fare le ballerine, io volevo fare il meccanico. – ci racconta Simonetta - Mentre loro a carnevale s'infiocchettavano da principesse e fatine, io mi vestivo da cow-boy e sognavo di pilotare un elicottero. Perché volevo fare quello che facevano i maschi. Le preclusioni del sesso m’infastidivano quanto m’invogliavano a spingermi oltre i cosiddetti “limiti” imposti dall’essere femmina. L’elicottero non sono riuscita a pilotarlo ma in compenso guido la motocicletta. Mi accontento. Il mio horror è dunque una sfida agli uomini e alle firme d’oltreoceano. Piccola come Davide, con in mano, al posto della fionda, delle storie italiane, e più ancora napoletane”. Nel suo repertorio oltre a racconti horror troviamo un racconto umoristico sulla condizione di casalinga per forza dal titolo “Quel sacripante del grafico si è scordato il titolo”, per dimostrare che chi scrive horror non è necessariamente un pazzoide che di notte va per cimiteri. Fra le opere dell’autrice possiamo annoverare: “Quel giorno sul Vesuvio”, (2005) Racconto vincitore dell’XI edizione del Premio Lovecraft; “Donne in Noir”, (2005 - Il Foglio Edizioni) ; “Black Millennium”, (2005); Quel sacripante del grafico si è scordato il titolo, curata dal Laboratorio di scrittura umoristica “Achille Campanile”; “L’amante” (2005) Racconto in e-Book – vincitore del concorso Consiglia Un Racconto e secondo classificato al concorso Noir Story; "Dove il silenzio muore" (2008 - Cento Autori). Ed è preprio col romanzo “Dove il silenzio muore” che Simonetta parteciperà al premio Giorgio Scerbanenco nell'ambito del Courmayeur Noir Film Festival. “Dove può morire il silenzio? Non nelle case infestate dalle porte scricchiolanti o negli antichi castelli dove aleggiano ombre di vampiri, né nei cimiteri in cui si aggirano morti viventi richiamati alla vita da qualche magico incantesimo. – prosegue Simonetta - Il silenzio muore nell’uomo. E al suo posto nasce una voce: la voce del Male”. A questo romanzo la scrittrice dà, ancora una volta, uno stampo che ricalca le orme di Stephen King; l’autrice preferisce i vivi ai morti, le lacrime al sangue, il silenzio alle grida. L’oscurità umana è il fine, il divino Ouroboros il mezzo. Niente di surreale accadrebbe, se gli uomini non lo permettessero. È tutto suggellato da segreti e cose mai dette. I personaggi se li trascinano dietro, con fatica, come se fossero anime infernali condannate a portare con sé i peccati da espiare. Questo romanzo toglie il respiro al lettore proprio come l’Ouroboros fa con le sue vittime. Il ritmo incalza dando allo scritto un taglio quasi cinematografico, i capitoli si fanno più brevi, quello che deve accadere pare inevitabile quanto quello che è già accaduto. E l’aria salmastra che traspira nelle pagine iniziali si fa sempre più rada, soffocante, stantia. Ogni capitolo è una voce a parte perché ogni personaggio è solo con i suoi tormenti. E solamente al momento della rivelazione le voci si uniranno, i personaggi si ritroveranno, i morti torneranno a riposare e i vivi riscopriranno la vita. Una storia fatta di storie, dunque, una voce riempita di voci: e tutte alla fine si congiungono per riempire quel vuoto lasciato dal silenzio.


Alessia Saggese

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