Esce in questi giorni, per i tipi della Firera & Liuzzo Publishing l'ultimo libro di Massimo Silvano Galli:  "L'amore alla fine dell'Amore" un volo panoramico, un viaggio a discendere, capitolo dopo capitolo, nei territori della mediazione familiare, attraversando alcune importanti e innovative argomentazioni attorno a una disciplina in Italia ancora troppo poco conosciuta e frequentata. 



La crisi che la coppia porta nel setting della mediazione è sempre carica di molteplici istanze, quasi mai esplicite e non esclusivamente circoscrivibili entro l'obiettivo della separazione né, men che meno, consapevolmente mosse dalla necessità di superare costruttivamente il conflitto o di aprire una nuova comunicazione capace di riconfigurare una relazione che ha perduto la gran parte delle risorse e delle energie propositive, comprese, quindi, quelle energie in grado di individuare, davanti ad un ostacolo, alternative e benefiche vie per superarlo.


La volontà di separarsi, persino laddove è esplicita e manifesta, si presenta, spesso, quale possibilità tra le tante che in quel momento albergano la mente della coppia; certo a volte la più accreditata, ma raramente l'unica possibile. Più frequentemente di quanto si possa immaginare, persino la coppia che sceglie la via giudiziaria è sostanzialmente animata da uno stato di confusione dove sopra a tutto prevale il desiderio di risolvere un malessere che ha già provato e fallito diverse strade per sedarsi e la cui più decisa presa in carico si avverte come non rinviabile. 



Con questa urgenza, in cui si muovono e prendono corpo emozioni ambivalenti, risentimenti, delusioni, nonché una buona dose di confusività amplificata dalla spirale del conflitto, la coppia si rivolge al mediatore con tutto il suo smarrimento e con la sensazione di aver perduto quella bussola grazie alla quale orientiamo e governiamo le nostre vite e, a volte, guidati verso un qualche nord magnetico, battiamo nuove e proficue strade non ancora sperimentate. La crisi manifesta, in qualche modo, che la bussola si è rotta, che non segna più alcun nord e che, mentre ogni precedente mappa è (apparentemente) inutilizzabile, tracciarne di nuove sembra compito se non impossibile, quantomeno impervio.

Per aiutare davvero le parti a dipanare questa nebbia e darsi la possibilità di accedere ad un panorama esistenziale differente, capace di rispondere ai desiderata e alle esigenze profonde di ognuno e, soprattutto, degli eventuali minori coinvolti, il mediatore dovrà, allora, lavorare affinché si riapproprino (e non solo individualmente) dei loro sistemi di orientamento, li ricalibrino o ne definiscano di nuovi entro cui stabilire le coordinate delle rinnovate esistenze a venire a cui, separazione o meno, dovranno andare incontro se desiderano veramente passare dall'attuale condizione a un nuovo stato in cui regna il ben-essere.

Il problema, dunque, non è semplicemente separarsi o restare insieme ma, semmai, in entrambi i casi: come farlo. E, allora, la differenza che può fare la mediazione sta davvero nella possibilità di sollecitare la coppia a incamminarsi nuovamente verso la costruzione di un nuovo amore, di un amore diverso alla fine di quell’amore che non ha retto, almeno nelle modalità in cui è stato gestito.

La coppia, presa nel dolore della separazione, tende a fuggire alla consapevole ricostruzione di una, per quanto differente, unità emotiva familiare per lasciarsi andare ai flussi delle emozioni distruttive. La mediazione dovrebbe ricordare loro che l’unico modo per uscire dal dolore e dai risentimenti per il perduto amor è, invece, proprio quello di ritessere il mantello delle emozioni costruttive, facendo perno sull’amore (dei figli, ad esempio) perché rimetta insieme i pezzi sparsi di una storia che comunque continua; ma occorre stare vicini a queste famiglie e insegnare loro la poesia dell’inventarsi, del costruirsi, del ricostruirsi e la passione dell’incollare; solo antidoto possibile alla passione morbosa ed autodistruttrice d’ogni frettolosa cesura.

0 commenti:

Posta un commento

 
Top