Pochi giorni fa mi sono recato in una delle maggiori città italiane dove lavoro, avendo appuntato in agenda con grande gioia un momento di evasione e di emozione: avrei partecipato all’inaugurazione di una mostra personale.
Capire l’arte è come avere Fede: è un dono. Occorre saperne cogliere il silenzio, l’emozione profonda; occorre un animo nobile sensibile volto a vivere una dimensione sublime eterea, eterna; un momento, senza tempo, in cui si confonde la dimensione spazio temporale in cui perdersi tra le proprie sensazioni, il proprio intimo metro di valutazione. Per cogliere un particolare, per entrare in sintonia con l’artista, viverlo dentro, per davvero, pensare come lui, comprenderne il contesto. Meditare, non giudicare: certo alla fine è naturale dare un giudizio ma ricordiamoci sempre in fondo di… non sapere nulla. E poi è bello astrarre il proprio commento, leggere la propria personale emozione, magari condividerla raccontarla. Contestualizzarla nel nostro ambiente sociale e culturale e confrontarsi col diverso, col lontano.
Che bello! Sapevo che avrei passato un momento intimo e collettivo che mi avrebbe cambiato. Aggiungo collettivo perché avevo invitato pure alcune persone a me care:, primi fra tutti i miei diretti collaboratori. Coloro i quali condividono con me gran parte della giornata e un progetto di crescita comune.
Crescere insieme lavorando e motivandosi, emozionandosi, insieme. Che bello!
Ma presto la mia emozione, la mia gioia hanno ceduto il passo ad amare considerazioni: chi ha scelto per me l’autore? Come si può organizzare una personale in Italia in uno spazio eventi del proprio Comune? Chi si muove per organizzare, proporre e in altri termini scegliere l’autore, il dove, il come esporre? Abituato a ragionare di arte, nei termini “americani” di prefigurare, di interpretare di costruire il futuro, di fotografare l’evoluzione sociale, offrire uno spaccato di vita destinato a vivere nel tempo… improvvisamente mi ritrovo assorbito in una logica del passato. Un mondo fatto di modi di pensare, duri a morire di “uomini-foglie”: sì, foglie morte che non hanno coscienza di aver perso la vita, il dono più bello che avevano avuto: l’onestà intellettuale.
“Uomini foglie”: quelle buttate dal vento. Foglie, quelle belle e preziose se funzionali ad un progetto grande di vita; quelle che se cadono hanno l’occasione di “rialzarsi”, tornando ad essere utili, nel terreno
Siamo tutti foglie… occorre essere consapevoli. Prima o poi arriva la stagione della maturità. E lo si capisce.
Vivere in Italia al tempo della “casta” consente di organizzare arte, cultura e spettacoli con grande semplicità: ve lo avevo già detto parlandovi di eventi (ndr): mi rendo conto che se un evento è fatto complesso, strumentalizzare un artista, investire su di lui con i soldi pubblici è molto più semplice.
In America finanziare arte è un’attività chiara e remunerativa, se hai fiuto, sensibilità e passione: finanche l’acquisto di un quadro è incentivato da una chiara normativa fiscale che consente di portare in detrazione ogni tipo di spesa in tal senso. In Italia non c’è problema: altro che fisco ostile! Ci pensa la casta. Non occorre alcuna “emozione”. Altro che fiuto! Ma quale sensibilità! Nessuna ricerca di danari privati ha senso Nessun cuore, nessun sguardo al futuro. Zero emozione. Occorre vivere il presente e cercare sempre danari pubblici. Danari pubblici, Aiuti e ancora danari pubblici. E così sputano occasioni effimere sedicenti e talvolta nemmeno seducenti. Impressioni più che espressioni. Attimi fuggenti più che momenti intensi e profondi.
Quanti pensieri mi assalgono…
Il peggiore tra tutti è però che la nostra società è piena di finzioni. E quella buona arte che ho visto (nella bella mostra di Gianni Lizio) mi ha mostrato uno spaccato sociale debolissimo e terribilmente senza speranza.
In una città, in un Paese in cui non c’è più l’onesta intellettuale di riconoscersi, di vedere insieme i problemi e chiamarli col loro nome, di sognare e impegnarsi a costruire una società migliore ci si perde, ci si distrae, ci si dispiace, scende una lacrima per il contesto piegato su se stesso, anche in una mostra aperta all’arte…
Capire l’arte è come avere Fede: è un dono. Occorre saperne cogliere il silenzio, l’emozione profonda; occorre un animo nobile sensibile volto a vivere una dimensione sublime eterea, eterna; un momento, senza tempo, in cui si confonde la dimensione spazio temporale in cui perdersi tra le proprie sensazioni, il proprio intimo metro di valutazione. Per cogliere un particolare, per entrare in sintonia con l’artista, viverlo dentro, per davvero, pensare come lui, comprenderne il contesto. Meditare, non giudicare: certo alla fine è naturale dare un giudizio ma ricordiamoci sempre in fondo di… non sapere nulla. E poi è bello astrarre il proprio commento, leggere la propria personale emozione, magari condividerla raccontarla. Contestualizzarla nel nostro ambiente sociale e culturale e confrontarsi col diverso, col lontano.
Che bello! Sapevo che avrei passato un momento intimo e collettivo che mi avrebbe cambiato. Aggiungo collettivo perché avevo invitato pure alcune persone a me care:, primi fra tutti i miei diretti collaboratori. Coloro i quali condividono con me gran parte della giornata e un progetto di crescita comune.
Crescere insieme lavorando e motivandosi, emozionandosi, insieme. Che bello!
Ma presto la mia emozione, la mia gioia hanno ceduto il passo ad amare considerazioni: chi ha scelto per me l’autore? Come si può organizzare una personale in Italia in uno spazio eventi del proprio Comune? Chi si muove per organizzare, proporre e in altri termini scegliere l’autore, il dove, il come esporre? Abituato a ragionare di arte, nei termini “americani” di prefigurare, di interpretare di costruire il futuro, di fotografare l’evoluzione sociale, offrire uno spaccato di vita destinato a vivere nel tempo… improvvisamente mi ritrovo assorbito in una logica del passato. Un mondo fatto di modi di pensare, duri a morire di “uomini-foglie”: sì, foglie morte che non hanno coscienza di aver perso la vita, il dono più bello che avevano avuto: l’onestà intellettuale.
“Uomini foglie”: quelle buttate dal vento. Foglie, quelle belle e preziose se funzionali ad un progetto grande di vita; quelle che se cadono hanno l’occasione di “rialzarsi”, tornando ad essere utili, nel terreno
Siamo tutti foglie… occorre essere consapevoli. Prima o poi arriva la stagione della maturità. E lo si capisce.
Vivere in Italia al tempo della “casta” consente di organizzare arte, cultura e spettacoli con grande semplicità: ve lo avevo già detto parlandovi di eventi (ndr): mi rendo conto che se un evento è fatto complesso, strumentalizzare un artista, investire su di lui con i soldi pubblici è molto più semplice.
In America finanziare arte è un’attività chiara e remunerativa, se hai fiuto, sensibilità e passione: finanche l’acquisto di un quadro è incentivato da una chiara normativa fiscale che consente di portare in detrazione ogni tipo di spesa in tal senso. In Italia non c’è problema: altro che fisco ostile! Ci pensa la casta. Non occorre alcuna “emozione”. Altro che fiuto! Ma quale sensibilità! Nessuna ricerca di danari privati ha senso Nessun cuore, nessun sguardo al futuro. Zero emozione. Occorre vivere il presente e cercare sempre danari pubblici. Danari pubblici, Aiuti e ancora danari pubblici. E così sputano occasioni effimere sedicenti e talvolta nemmeno seducenti. Impressioni più che espressioni. Attimi fuggenti più che momenti intensi e profondi.
Quanti pensieri mi assalgono…
Il peggiore tra tutti è però che la nostra società è piena di finzioni. E quella buona arte che ho visto (nella bella mostra di Gianni Lizio) mi ha mostrato uno spaccato sociale debolissimo e terribilmente senza speranza.
In una città, in un Paese in cui non c’è più l’onesta intellettuale di riconoscersi, di vedere insieme i problemi e chiamarli col loro nome, di sognare e impegnarsi a costruire una società migliore ci si perde, ci si distrae, ci si dispiace, scende una lacrima per il contesto piegato su se stesso, anche in una mostra aperta all’arte…
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