Il secondo numero di MOVIEMENT è dedicato a Terrence Malick, forse in assoluto il più grande regista vivente!
È davvero singolare la parabola artistica di Malick, iniziata nella prima metà degli anni settanta in piena “New Hollywood” col folgorante La rabbia giovane (1973) già subito diventato oggetto di ‘culto’ per un’intera generazione, proseguita cinque anni dopo con I giorni del cielo (1978) un film attraversato da un grande respiro griffithiano e senza ombra di dubbio definito “one of the most cinematic achievements of the 1970s” (Variety Movie Guide). Poi una lunga, lunghissima pausa durata venti anni per riapparire, come la mitica “araba fenice”, in una rinnovata e strabiliante dimensione filosofica ed estetica con La sottile linea rossa (1998). Infine, ed è storia di ieri, l’apoteosi con The New World (2005) un capolavoro che mette, presumibilmente ed a dispetto degli scettici, il sigillo definitivo al genio cinematografico malickiano.
Può questa smilza filmografia, con cadenze simil-dreyeriane, costituire un serio banco di prova per una plausibile categorizzazione storiografica oppure dobbiamo limitarci a collocare l’opera di Malick nel campo degli autori ‘inclassificabili’ e non ancora sufficientemente ‘storicizzabili’? Sono false questioni. Il cinema di Malick, al di là di una improponibile visione nei termini di una poetica di “lirica contemplazione”, è sicuramente un cinema che si inscrive tra i poli della classicità e della modernità sulla scia luminosa di Griffith, Ejzenstein, Welles, Kubrick. Come questi grandissimi cineasti Terrence Malick in ogni frammento anche minimo dei suoi film cerca di conquistare la Grande Forma del Cinema attraverso l’arte totale della regia.
È davvero singolare la parabola artistica di Malick, iniziata nella prima metà degli anni settanta in piena “New Hollywood” col folgorante La rabbia giovane (1973) già subito diventato oggetto di ‘culto’ per un’intera generazione, proseguita cinque anni dopo con I giorni del cielo (1978) un film attraversato da un grande respiro griffithiano e senza ombra di dubbio definito “one of the most cinematic achievements of the 1970s” (Variety Movie Guide). Poi una lunga, lunghissima pausa durata venti anni per riapparire, come la mitica “araba fenice”, in una rinnovata e strabiliante dimensione filosofica ed estetica con La sottile linea rossa (1998). Infine, ed è storia di ieri, l’apoteosi con The New World (2005) un capolavoro che mette, presumibilmente ed a dispetto degli scettici, il sigillo definitivo al genio cinematografico malickiano.
Può questa smilza filmografia, con cadenze simil-dreyeriane, costituire un serio banco di prova per una plausibile categorizzazione storiografica oppure dobbiamo limitarci a collocare l’opera di Malick nel campo degli autori ‘inclassificabili’ e non ancora sufficientemente ‘storicizzabili’? Sono false questioni. Il cinema di Malick, al di là di una improponibile visione nei termini di una poetica di “lirica contemplazione”, è sicuramente un cinema che si inscrive tra i poli della classicità e della modernità sulla scia luminosa di Griffith, Ejzenstein, Welles, Kubrick. Come questi grandissimi cineasti Terrence Malick in ogni frammento anche minimo dei suoi film cerca di conquistare la Grande Forma del Cinema attraverso l’arte totale della regia.
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