Chi ripara l’Azienda Italia? Dove sono le nuove leve? Quali sono le qualità che il Paese ha smarrito e cerca ora di recuperare? Il punto di Gian Guido Folloni, presidente Isiamed e co-fondatore del blog indipendente Il Comunicatore Italiano.
Dove sono le nuove leve? Dove la nuova classe dirigente? Dove i quarantenni e i cinquantenni? Quando dopo gli anni dell’era Bush prese in mano gli Stati Uniti d’America (anche quella una nazione che stava rotolando verso la crisi), Barak Obama aveva 47 anni.
Una generazione politica è passata al vaglio della responsabilità e ha dovuto lasciare il timone ai padri, se non ai nonni. Pura aritmetica: il Ministro Giarda potrebbe essere giovane nonno della Ministra Carfagna.
I dati anagrafici non lasciano dubbi. Silvio Berlusconi diviene primo ministro a 58 anni. Nemmeno tanto giovane, anche se poi vorrà mostrare di sapersi conservare tale. Ma tanti quarantenni e cinquantenni arrivano, in quegli anni, ai più alti posti di governo. Tremonti diviene ministro a 47 anni, Calderoli a 48, Giovanardi a 51, Castelli a 55, Brambilla a 42, Gelmini a 35, Carfagna a soli 32anni.
Perché in Italia i quarantenni e i cinquantenni non hanno funzionato? La loro irruzione sulla scena politica occupa gli anni novanta e il primo decennio del nuovo secolo e dura oltre 15 anni. Un tempo non breve, lo stesso che dal 1946 al 1961 portò il nostro Paese dalle macerie della Seconda guerra mondiale agli anni del Boom economico. Per questo l’interrogativo è legittimo. Forse un poco impietoso.
Oggi, tecnici o politici che dirli si voglia, al capezzale dell’Italia ammalata grave sono arrivati uomini carichi d’anni e d’esperienza. I ministri chiamati a riparare ai guasti del Paese che la cosiddetta seconda Repubblica non ha saputo mantenere in rotta di navigazione sono come minimo over sessanta e spesso over settanta. Poche le eccezioni. Monti di anni ne ha 69, Di Paola 68, Cancellieri 69, Gnudi 74, Giarda 76, Clini 65, Ornaghi e Fornero 64. Ci sono anche i cinquantenni, ma dai 57 (Patroni Griffi e Balduzzi) in su. Né si può ignorare che il Presidente Napolitano, iniziatore di tutta la fase di rimessa sui binari della nazione, di anni ne ha ottantasette.
Pare quasi che all’Italia – potremmo a questo punto dire all’Azienda Italia – sia successo quel che tante volte è accaduto nelle imprese di famiglia. Il padre fonda l’Azienda. Organizza la produzione. La gestisce, la porta all’onore del mondo. Affronta i travagli e le traversie che sempre accompagnano le cose umane. Poi, quando il naturale volgere degli anni chiama la generazione successiva alla responsabilità, accade – quanti gli esempi che qui non si citano stanno delle cronache delle imprese (non solo italiane in questo caso) – che l’Azienda va in affanno.
Non subito, anzi. Al primo impatto l’Azienda annuncia che la nuova linfa darà certo più lustro, e perseguirà nuovi traguardi. Ma, alle traversie del tempo nuovo, qualcosa non quadra. L’Azienda arranca, ristagna, si sta per arenare. Buon per la famiglia, in quei casi, se il padre si rimette in tolda, rimedia, raddrizza la spesa, commisura i progetti alle forze reali, fissa i nuovi traguardi possibili, ridà concretezza e gambe.
Come Azienda Italia siamo qui? E’ successo davvero questo? Se così fosse, quali sono le qualità che il Paese ha smarrito nell’era gestita dai quarantenni e cerca ora di recuperare? Se provassimo a scoprirle, a dare loro un nome – non sono un dato contabile – avremmo fatto molto di più di tre manovre finanziarie.
Avremmo trovato una più seria piattaforma per lasciare la mala politica senza cadere nella padella dell’antipolitica. Che è come quando i rampolli anziché capire cosa faceva il bene dell’Azienda, s’azzuffano e si beccano. Come i capponi di Renzo.
FONTE: Il Comunicatore Italiano
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