Pubblichiamo l'intervento di Massimo Silvano Galli al convegno “Olismo e terapie informazionali” (Milano, presso l’Auditorium Guna, 7 Novembre 2008), con la partecipazione di: Ervin Laszlo, Pier Mario Biava, Sergio Maria Francardo, Anna Masera, Michelangelo Pistoletto, Franz Di Cioccio, Denis Curti, Marco Roveda. Nelle immagini due opere di M.S. Galli: "Studio per il ribaltamento della fontana di Duchamp" e "Orinatoio - wiki art".


Il discorso sulle funzioni terapeutiche dell’arte e, più in generale, dei linguaggi espressivi, è più che complesso e disarticolabile lungo molteplici prospettive non riducibili ad un'unica matrice di senso. Quello che vorrei provare a compiere è, allora, una sorta di esercizio ermeneutico, inseguendo alcune delle possibili direttrici tra le tante che si sarebbero potute scegliere.

Prima di cominciare però, affinché ogni interpretazione, per quanto eretica, risulti comprensibile, credo sia necessario partire da una distinzione con cui desidero delimitare questo contributo, una distinzione che qualifica il concetto di terapia qui indagato non come guarire da… ma come curarsi di… nel senso di prendersi cura di qualcosa o qualcuno.
L’arte, infatti, non guarisce alcunché, permette semmai di penetrare nel processo della cura e della cura di sé in particolare, mettendosi in ascolto dell’Altro diverso da sé: sia esso dentro o fuori di noi, oggetto o soggetto; permette di svincolarsi dai confini della propria biografia per addentrarsi nello spazio sconfinato e benefico di quella “mitobiografia” in cui -appunto- l’atto creativo, dà luogo al parto dell’Altro diverso da sé e nasce l’Adamo: l’uomo nuovo, rigenerato, curato.
La cura dell’arte è, insomma, l’arte del cambiamento, dove i linguaggi, tutti i linguaggi, si addensano e si ritraggono in una danza carica di opportunità, anche improbabili e discordanti, ma sempre rivelatrici delle infinite maschere dell‘esistenza.
Ciò detto, la prima suggestione che vorrei proporvi lungo questo itinerario si trova tra le pagine di un bellissimo e famoso romanzo di Manuel Scorza, «La danza immobile» e recita: “L’uomo è una metafora provvisoriamente vestita di carne, o una carne che si nutre di metafore?”.
Si tratta di una sintesi a mio avviso fenomenale, testimone da una parte del senso di travestimento e di tradimento cui è costantemente sottoposto l’uomo e, quindi, ogni sua creazione e, dell’altra, della profonda necessità di accedere a questo nutritivo e lenitivo tradimento.
L’atto creativo più elementare che ognuno di noi costantemente compie, seppur inconsapevolmente, si risolve, infatti, attraverso lo sguardo; nel senso che ogni nostra osservazione è, di fatto, un processo attivo dove occhio e cervello non guardano e registrano solamente, ma attraverso una particolare lente deformante generata da tutte le cose che hanno già osservato, le nozioni che hanno precedentemente appreso, i racconti che hanno assorbito; pre-strutture che influenzano il nostro sguardo e, aggiungendo strati soggettivi a quelle osservazioni che si vorrebbero oggettive, non restituiscono di fatto un mondo per come è, ma ne creano ogni volta uno nuovo.
Per comprendere meglio questa asserzione dobbiamo però salire di complessità sulla scala della creazione. Ad un secondo livello, infatti, laddove l’umano prova a trasportare fuori da sé ciò che prima aveva catturato con lo sguardo e registrato col cervello, assistiamo ad un altro atto creativo ugualmente, per così dire, non-intenzionale. È questo il regno della parola, del linguaggio, dove meglio si chiarificano le caratteristiche di tradimento e di nutrimento celate nella domanda di Manuel Scorza.
Il linguaggio è, infatti, sempre una metafora della realtà. La parola ci nutre e ci tradisce traducendoci; allo stesso modo in cui il vocabolo “pane” è solo una rappresentazione della cosa e certo non sfama il nostro corpo, ma sfama la nostra psiche contribuendo a dare un senso alla realtà che ci circonda.
Infine, salendo nuovamente di livello e spostandoci in una zona intenzionale, o almeno più intenzionale, incontriamo l’atto creativo vero e proprio in cui emerge l’opera d’arte e si palesano definitivamente le intrinseche proprietà di tradimento e nutrimento. Vediamo come.
Ad ognuno di questi livelli (ma soprattutto nell’ultimo, laddove l’opera si manifesta), qualsiasi prodotto della creazione umana, si configura originariamente come un oggetto a se stante che non appartiene al mondo della natura e non appartiene ancora al mondo della cultura. Ogni opera creata, cioè, è opera ermeneutica che dà nome e forma alla natura informe facendosi intermediaria tra i suoi regni e il regno della cultura che si alimenta di queste opere di intermediazione.
John Dewey in “Arte come esperienza” ci rende partecipi di un simpatico aneddoto molto significativo per esplicitare questo essere a se stante dell’atto del creare.
Durante l’inaugurazione di una mostra, un’avvenente visitatrice, sbirciando con un occhio un dipinto e con l’altro il suo autore, commenta: “Se posso dire la mia, non credo di aver mai visto una donna che somigli a questo ritratto.”.
“Ma signora,” risponde piccato il pittore, che per inciso era Henri Matisse, “questo è un quadro, non è una donna!”.
L’opera, appunto, non appartiene a questo mondo e pure vi appartiene è, come dice Heidegger: “[…] solamente un’eco, in fondo autenticamente irreale.”.
Di questa paradossale eco “autenticamente irreale” il nostro corpo, la nostra psiche, si nutrono e abbisognano più di quanto si possa immaginare e credere. L’uomo, infatti, può adattarsi ad ogni cosa, anche alle situazioni di più atroce sofferenza, ma non può sopravvivere in un mondo che non è in grado di spiegare, a cui non è in grado di dare un senso. Come dice Picasso l’arte, “non è la verità, ma una bugia che ci fa realizzare la verità.”.
Per comprendere la cura che si può praticare con l’arte, credo si debba estendere questo concetto, questa salvifica e nutritiva “verità della menzogna”, a tutto l’operare umano, persino a quell’operare che chiamiamo scienza e che, troppo spesso, commettiamo l’errore di ammantare di oggettività, eludendo l’impulso immaginario da cui deve necessariamente originare ogni atto scientifico. L'uomo, insomma, è anzitutto un animale visionario la cui peculiarità è trasformare qualsiasi già dato in altro, cominciando a immaginarlo diversamente.
Questo carattere immaginario che permea l’uomo in ogni sua attività, ci conduce ad una nuova suggestione: una breve e significativa favoletta. Come tutte le favole comincia con… “C’era una volta…”, ma in questo caso proprio una volta… almeno quaranta, quarantacinquemila anni fa, una piccola comunità di uomini e di donne che, come in uso nei costumi dell’epoca, viveva in una caverna.
Ogni giorno si alzavano e compivano quelle tre/quattro operazioni che facevano della loro vita… la loro vita: cacciare, raccogliere erbe, bacche, frutti, mangiare, riprodursi e tornare a dormire... così, senza sosta, aspettando, non diversamente da noi, la fine.
Un bel giorno, però, come in tutte le favole, accadde una cosa straordinaria.
Una mattina, mentre tutta la comunità si preparava per uscire a procurarsi il cibo, due di loro si fermarono.
“Che c’è,” gli chiesero, “non vi sentite bene?”.
"No,” risposero quelli, “stiamo benissimo. È che preferiremmo star qui a disegnare.".
"A disegnare?” li guardarono allibiti. “E che significa?".
…Be' forse le cose non andarono proprio così, forse non parlarono nemmeno, probabilmente i più pensarono che fossero malati -dei pazzi, avrebbero detto qualche millennio più tardi. Sta di fatto che quei due si fermarono e, la sera, quando il gruppo rincasò, anzi… rincavernò, si trovò di fronte a qualcosa di miracoloso: le pareti della caverna completamente istoriate.
Dopo un primo momento di imbarazzo proruppe la meraviglia e tutti cominciarono a correre da una parte all'altra della grotta, riconoscendo le cose che erano del mondo e che, ora, per una autentica magia, si trovavano lì, su quelle rocce.
“Guarda,” diceva uno, “quello sono io mentre caccio.”.
“E quella,” diceva un'altra, “quella sono io mentre raccolgo le bacche.”.
Insomma, capirono che quei due non erano proprio pazzi ma, anzi, che avevano un che di speciale e, se non proprio loro, certo quelle strane cose che facevano sulla roccia e che chiamavano disegni.
Così, da quel giorno, cominciarono a tenerli in una certa considerazione.
Gli chiedevano consiglio quando qualcosa li turbava, quando dovevano prendere certe importanti decisioni; si recavano da loro quando stavano male e, questi, una volta facendo un disegno, una volta compiendo una danza, riuscivano, non sempre certo, ma spesso, anche a guarirli e, sicuramente, sicuramente li curavano, nel senso che si prendevano cura di loro.
Andarono avanti così per anni; poi, e siamo al lieto fine, uno dei due artisti, a questo punto possiamo chiamarli così, disse: "Senti… sai cosa ti dico… io mi sono rotto di disegnare, mi sa che vado a fare il medico.".
"Il medico?" chiese l'altro stupito. "E cos'è il medico?".
Fine della novella.
L’uomo, secondo Jaques Lacan, diviene tale nel momento in cui entra nella relazione simbolica, un passaggio che, se ci spostiamo dal soggetto alla specie, ci dicono i paleontologi, segna lo sviluppo dell’umanità attorno -appunto- ai quaranta, quarantacinquemila anni fa ed è non a caso definito: il grande balzo in avanti dell’evoluzione umana. Un’autentica rivoluzione adattiva, in cui improvvisamente compaiono le prime forme di decorazione corporea, gli ornamenti, i dipinti rupestri, la scultura; opere talmente raffinate la cui repentina comparsa rappresenta ancora oggi un enigma. Emergono così capacità cognitive inedite e smisurate rispetto a quelle degli altri primati e i comportamenti sociali raggiungono livelli di estrema complessità e articolazione. Ecco l’anello mancante di cui da sempre sono in cerca gli Sherlock Holmes dell’evoluzione che hanno passato gli ultimi secoli a scrutare e confrontare crani e splancnocrani: non un fossile, ma la capacità di creare simboli, ossia di operare, più o meno scientemente, quei tradimenti e quei nutrimenti che citavamo all’inizio del nostro discorrere.
Attraverso la nostra capacità di creare simboli diventiamo una specie unica tra gli esseri viventi. Ma una delle particolarità del simbolo, dicevamo con l’esempio del vocabolo “pane”, è quella di non avere rapporto diretto con la realtà -il referente, ma soltanto con il concetto e con l'idea mentale -la referenza. È questo che fa di ogni simbolo un prodotto culturale che, per essere appreso, deve essere trasmesso.
La nostra capacità di creare e di comunicare simboli, di trasmetterli ad altri, ci differenzia dalle altre creature animali le quali dipendono per lo più dalle informazioni già incastonate nei loro cervelli.
L’astronomo Carl Sagan chiama questa capacità tipicamente umana: «conoscenza extrasomatica», sostenendo che sia questa a fare la differenza tra noi e, ad esempio, l’uomo primitivo pre-simbolico che abitava la caverna della nostra favoletta; non il nostro corredo genetico, che più o meno è rimasto immutato. Ciò significa che il nostro essere uomini risiede nella capacità di creare e comunicare simboli.
Manipolando i simboli il nostro cervello acquista (ha acquistato) la capacità di eseguire operazioni altrimenti impossibili mentre, allo stesso tempo, i simboli modificano (hanno modificato) il nostro cervello più potentemente e più radicalmente dei geni. I simboli, perciò, non sono mere associazioni arbitrarie, ma veri e propri agenti in grado di plasmare attivamente il nostro cervello e di intervenire sul nostro benessere.
Richard Dawkins, ha dato a questi agenti il nome di «meme», una sorta di «gene della mente». Se il gene è la molecola replicante che prevale negli organismi biologici, il «meme» è l'unità base della trasmissione culturale che può essere trasmesso da individuo a individuo subendo variazioni evolutive, ma con una velocità infinitamente superiore. Inoltre, mentre sui geni non possiamo intervenire, se non con sofisticate e ai più inaccessibili tecnologie, la creazione e la trasmissione di nuovi «meme» non è preclusa a nessuno.
Sappiamo che le malattie, come i loro rimedi, hanno forma prettamente culturale e disegnano scenari che vanno ben al di là di ogni patologia che gli amministratori della salute di un’epoca possono diagnosticare e guarire; per questo non ci deve stupire se la gran parte della odierna ricerca scientifica è tutta centrata sullo studio dei geni e non si occupa, se non marginalmente, ad esempio dello studio del «meme».
Non che si voglia, con questo, invalidare la grande decriptazione del genoma umano, ma provare invece a sostenere un’idea altra del concetto di cura dove, ad esempio, le persone non siano trattate come meri oggetti di indagine, ma gli sia restituita la dignità di soggetti capaci di riflettere su di sé, di diagnosticare le loro sofferenze e di collaborare alla cura dei loro problemi, attraverso -evidentemente- un processo culturale e formativo al contempo che li metta nelle condizioni di entrare in un contatto diverso la cura di sé, magari, chessò, proprio imparando a manipolare il proprio personale «memoma».
Come mai nella nostra epoca, invece, intermediari di ogni disciplina della conoscenza ci hanno sottratto e ci sottraggono il diritto/piacere di riconoscerci quali padroni del nostro corpo-sapere, annichilendo la nostra naturale capacità di interrogarci, di capirci, di curarci e di produrre conoscenza.

Per stare sui contributi dell’arte, quasi un secolo fa monsieur Marcel Duchamp si è cimentato con questa sfida e ha provato a ricondurre il soggetto alla sua funzione di produttore di sapere, svincolato da qualsiasi certificato di autorevolezza disciplinata dalla autorità del momento.
Era, per la precisione, il 1917 e Duchamp si apprestava a partecipare alla prima esposizione dell’America Society for Indipendent Artist con un’opera destinata ad archiviare per sempre il significato millenario del fare arte: un orinatoio acquistato sul catalogo di una ditta specializzata che Duchamp capovolge e intitola «Fontaine». Un’opera rivoluzionaria che dà vita ad una vera e propria rottura epistemologica con la tradizione occidentale ma che, soprattutto, ci invita ad operare la medesima rottura su tutti i fronti del sapere umano.
Fino a prima di Duchamp, infatti, la “Cosa d’arte” è sempre stata la rappresentazione della Cosa. Non una donna, come nel nostro esempio di Matisse, ma un quadro, la rappresentazione di una donna. Duchamp, invece, mette la Cosa reale laddove da sempre abbiamo assistito alla sua rappresentazione, fa sì che la Cosa reale fecondi e generi se stessa come Cosa d’arte. Nasce così una nuova Cosa che forse non si può più nemmeno chiamare d’arte. E infatti, a differenza di tutte le sue passate consimili, questa nuova Cosa non si contestualizza in sé in quanto arte, ma chiama lo sguardo dell’Altro, del fruitore, per divenire tale.
La toelette/Fontaine di Duchamp, per essere definita opera d’arte, deve essere inserita in uno spazio che la qualifichi come tale, poiché fuori da quello spazio qualificante altro non sarebbe che un cesso rovesciato. A quel punto potrà ricevere lo sguardo del visitatore che però, trovandosi di fronte ad un oggetto in qualche modo per nulla artistico, non rappresentativo, nel senso classico del termine, è costretto, se desidera comprendere l’opera, a compiere uno sforzo riflessivo e provare a dargli un senso. Per questo si parlerà di un‘opera definitely unfinished, definitivamente non finita, che può trovare la sua finitudine, il suo senso o, meglio, uno dei suoi possibili sensi, solo nello sguardo dell’Altro-Fruitore. Ciò significa il fruitore chiamato a finire l’opera, intenzionandola di significati, entra compiutamente nel processo creativo, diventa egli stesso artista, ossia qualcuno che non sta più passivamente davanti all’opera ma, in qualche modo, la ri-crea.
Se ora proviamo ad allargare il campo di applicazione che ci suggerisce l’opera di Duchamp, ad esempio trasportandolo nell’ambito della cura, ci accorgeremo che siamo di fronte ad un vero e proprio atto rivoluzionario che ci libera spezzando la barra (del potere, direbbe Foucault) che separa chi detiene gli strumenti ermeneutici da chi li subisce, in questo caso la barra che separa paziente e terapeuta.
L’opera di Duchamp, largamente incompresa nel suo significato profondo e snaturata e banalizzata da molti dei suoi stessi epigoni, ci invita a riappropriarci del nostro sguardo creatore, a diventare gli sciamani di noi stessi producendoci nella manipolazione di simboli o, se vogliamo, nella creazione di nuovi «meme».
“L’arte,” dice Heidegger, “è una cosa a cui è successo qualcosa”, e la cura cui l’arte può accedere si configura proprio nell’esercizio consapevole di questa capacità di far succedere qualcosa alle cose, a partire da quella cosa che ognuno è per se stesso.
Si tratta di avviare un vero e proprio processo educativo capace di guardare all’arte e alla dimensione estetica come ad un evento “non separato dall'esperienza umana” ma che operi con e nell'esperienza del quotidiano, tornando, come quando si era bambini, a sporcaci le mani (e senza paura) con il “fare” dell’opera; consapevoli che, come dice John Cage (e valga come mia personale ricetta medicamentosa): E’ meglio creare un brano musicale che eseguirlo, meglio eseguirlo che ascoltarlo, meglio ascoltarlo che abusarne come mezzo per distrarsi, intrattenere o acquisire cultura.”.

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