Il 31 marzo 2009 la Corte europea di Strasburgo, nel "caso Faccio", ha stabilito che il canone di abbonamento alla Rai è dovuto a prescindere dall'uso dell'apparecchio radio-televisivo (sintonizzato su canali Rai o canali privati) oppure alla ricezione dei canali (canali di Tv estere piuttosto che italiane) essendo, piuttosto, connesso al semplice possesso.
Imposta di possesso e finanziamento del servizio
La sentenza della Corte europea di Strasburgo in merito al canone precisa che si tratta "di una imposta dovuta in ragione del possesso di un apparecchio atto a ricevere qualsiasi programma televisivo" e aggiunge che "il canone Rai costituisce in effetti un'imposta destinata al finanziamento del servizio pubblico della radio-telediffusione". "Un sistema che permettesse di vedere soltanto i canali privati, senza pagare il canone televisivo, ammesso che possa essere tecnicamente realizzabile, equivarrebbe, precisa la Corte, a denudare l'imposta della sua stessa natura, ossia contribuire a un servizio rivolto alla comunità e non, invece, un prezzo da corrispondere in cambio della ricezione di una particolare rete televisiva". Rigettando il ricorso, la Corte ribadisce che non sussiste violazione del diritto di ricevere informazione e nemmeno interferenza nel diritto al rispetto della vita privata e familiare, come lamenta la parte.
Servizio pubblico e inadempienze
La sentenza conclude che, in considerazione del modico ammontare del canone pari a € 107,50, l'azione di porre sotto sigillo l'apparecchio televisivo è invece proporzionata al raggiungimento di due obiettivi legittimi da parte dello Stato: finanziare un servizio pubblico e scoraggiare le inadempienze. La pronuncia della Corte di Giustizia europea si colloca nel solco ermeneutico tracciato dalla nostra Corte di Cassazione, a sezioni unite, che, concordemente all'indirizzo espresso prima dalla Corte costituzionale (284/2002) e, poi, dalla stessa Cassazione (20068/2006), con la sentenza n. 24010/2007, riconosce la competenza sulle controversie che attengono al canone Rai, in capo alle Commissioni tributarie.
Una prestazione tributaria fondata sulla legge
A detta dei supremi giudici, il canone di abbonamento radiotelevisivo "non trova la sua ragione nell'esistenza di uno specifico rapporto contrattuale che leghi il contribuente, da un lato, e l'Ente la Rai, appunto, che gestisce il servizio pubblico radiotelevisivo ma si tratta di una prestazione tributaria, fondata sulla legge, non commisurata alla possibilità effettiva di usufruire del servizio de quo".
I termini del ricorso
Il caso prende le mosse da un ricorso presentato da un cittadino italiano, Bruno Antonio Faccio, che il 20 dicembre 1999 aveva inoltrato alla Rai (Radiotelevisione Italiana) "ufficio abbonamenti" la richiesta di disdetta dall'abbonamento al servizio radiotelevisivo pubblico. Il 29 agosto 2003 al contribuente la Rai provvedeva a sigillare il televisore. Facendo riferimento all'articolo 10 (libertà di espressione) e all'articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione europea sui diritti umani, il signor Faccio decise di presentare ricorso dinanzi alla Corte europea dei diritti dell'uomo asserendo, tra l'altro, che l'atto di rendere inutilizzabile il televisore era una misura sproporzionata in quanto non gli consentiva di vedere i canali privati. Inoltre il contribuente ha invocato l'articolo 1 del Protocollo n° 1 (protezione della proprietà) della Convenzione.
Fonte: Agenzia Entrate
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