Intervento di Antonio Bettanini per il blog- think tank Il Comunicatore Italiano.
Celentano e San Remo, una sovranità che deriva dallo share. “La
condizione di vincere con lo share ha bisogno di molte sospensioni, non
ultima quella delle regole e dell’etica pubblica proprio là dove
dovrebbe essere presidiata. Ed è questa l’ultima trasgressione che ci fa
impazzire”.
Ci si potrebbe aggiungere anche noi al coro della celentanistica, la disciplina che di Celentano analizza criticamente la performance televisiva; o contribuire a ispirare sul carro dei vincitori quella celentaneide le cui gesta i molti suoi tifosi cantano e che, se proprio va male, si aggrappano allo share. Ma siccome, per incidens, il suo è sempre stato un crescendo, forse è più giusto lasciar parlare le cifre: 9 milioni 695 mila (42,29%) di telespettatori con “Francamente me ne infischio” nel 1999; 10 milioni 351 mila con “125 milioni di Caz…te” (41,95%) nel 2001; per toccare gli 11 milioni 649mila (47,19%) in RockPolitik nel 2005.Sette anni dopo, infine, a Sanremo, lo share dell’ultima serata di festival ha superato con lui i 17milioni e 500 mila spettatori (68,21%). E certo ha ragione il Morandi della seconda serata che dice:”Quando ho visto gli ascolti mi son venuti i brividi. Abbiamo fatto il 50% di share, una roba incredibile, e lo dobbiamo molto anche al nostro amico Adriano che canta, fa casino, provoca ma meno male che c’è. Speriamo che torni”. E il discorso si chiude qui. A meno che non decidiate di cambiate prospettiva, provando a ricostruire i passaggi di questo “successo”.
1. Il primo dato da cui partire consiste nella “proprietà transitiva” dell’autorevolezza, una proprietà cui i media hanno sempre di più fatto ricorso, a partire dalla visibilità di un personaggio. Intendiamoci: l’idea che chiunque possa dire qualunque cosa è il sale di una democrazia liberale che il giornalismo e le sue cronache hanno sposato, dalla parte degli uomini e delle donne della strada. Ma poi questa funzione di commento, di registro o polso della pubblica opinione ha cominciato a puntare sulla rappresentatività, l’autorevolezza dell’intervistato. Meno sull’uomo qualunque, più sul personaggio noto. Quasi che dal cerchio magico e sacro della competenza professionale o della legittimazione sociale si sia invitati ad uscire, per affrontare una parte di mondo, e i suoi significati, e portarvi tutto il peso della nostra influenza. E rendere, così, importante la banalità. Il politico parlerà di cani, il cantante di politica: e va certamente bene fin qui.
2. Bisogna però, e poi, vedere come si eserciti questa “transitività”. Se sia messa a confronto di altre, per esprimere un giudizio, una simpatia, una preferenza. O se invece, anche a voler essere generosi con il ragazzo della via Gluck, non sia altro che un diritto di tribuna che certo nasce, come detto, da un talento e da una competenza, ma appunto conquistati in tutt’altra disciplina. Per cui la gloria canora e la parola cantata ne sono infatti il passaporto, ma anche l’addio, perché di fatto – là sul palco – finiranno per evaporare e lasciare il campo alla parola parlata. Ora il palcoscenico è come usurpato da un cantante che non canta. E che parla. Ma come?
Nel tempo la povertà di linguaggio ha saputo conquistare il dominio delle pause che, nelle prestazioni iniziali, quando Celentano non si prendeva sul serio (e non era preso sul serio), erano il sintomo simpatico e fresco di una sua inadeguatezza, di una semplicità appunto poco acculturata e come tale accettata con simpatia e con autoironia. E’ stato il tempo a rendere serio quel che serio non era. A far ritenere che il vuoto della pausa sia il pieno di un’argomentazione stringente. Il tempo, che diviene poi anche una gestione sapiente dell’assenza, della mancanza, di un altro meccanismo mediatico importante capace di ri-accendere nei suoi corsi e ricorsi la curiosità per il personaggio che da tempo non vedevamo più.
Il tempo ha anche inacidito il cuore. E alimentato l’immagine e la figura del predicatore: infatti quel diritto di tribuna viene esercitato senza contraddittorio alcuno. Addirittura alimentando nell’opposizione lento-rock un’antica dicotomia del reale che è solo in apparenza scherzosa e che impone uno stigma su persone e cose. Un’interpretazione combattente che si consente, circondata dal mistero, tutte le trasgressioni – e sembra sia il fato a decidere contro chi lui si eserciterà – alimentate nel pubblico dall’attesa, dalla curiosità per quel che lui si permetterà, e quindi dal dover esserci; mentre il predicatore, vittima del meccanismo, dovrà a tutti costi ricercare un effetto di “straniamento”, dovrà andare sempre più oltre nel territorio della trasgressività. E si afferma così il paradosso secondo cui proprio l’agenzia pubblica più ossessionata, e ossessiva, con l’esercizio della dialettica delle idee nel pluralismo, abbassa ora tutte le armi. E manda in soffitta tutte le alchimie dell’Osservatorio politico di Pavia (si fa per dire), dando campo libero all’ oratoria del contro chiunque e alla qualunque. La condizione di vincere con lo share ha dunque bisogno di molte sospensioni, non ultima quella delle regole e dell’etica pubblica proprio là dove dovrebbe essere presidiata. Ed è questa l’ultima trasgressione che ci fa impazzire…
In conclusione: il meccanismo della transitività ha dunque dispiegato tutta la sua forza che è quella di farci rendere omaggio – nel nome della libertà – ad una sovranità che deriva soltanto dallo share.
FONTE: Il Comunicatore Italiano
Ci si potrebbe aggiungere anche noi al coro della celentanistica, la disciplina che di Celentano analizza criticamente la performance televisiva; o contribuire a ispirare sul carro dei vincitori quella celentaneide le cui gesta i molti suoi tifosi cantano e che, se proprio va male, si aggrappano allo share. Ma siccome, per incidens, il suo è sempre stato un crescendo, forse è più giusto lasciar parlare le cifre: 9 milioni 695 mila (42,29%) di telespettatori con “Francamente me ne infischio” nel 1999; 10 milioni 351 mila con “125 milioni di Caz…te” (41,95%) nel 2001; per toccare gli 11 milioni 649mila (47,19%) in RockPolitik nel 2005.Sette anni dopo, infine, a Sanremo, lo share dell’ultima serata di festival ha superato con lui i 17milioni e 500 mila spettatori (68,21%). E certo ha ragione il Morandi della seconda serata che dice:”Quando ho visto gli ascolti mi son venuti i brividi. Abbiamo fatto il 50% di share, una roba incredibile, e lo dobbiamo molto anche al nostro amico Adriano che canta, fa casino, provoca ma meno male che c’è. Speriamo che torni”. E il discorso si chiude qui. A meno che non decidiate di cambiate prospettiva, provando a ricostruire i passaggi di questo “successo”.
1. Il primo dato da cui partire consiste nella “proprietà transitiva” dell’autorevolezza, una proprietà cui i media hanno sempre di più fatto ricorso, a partire dalla visibilità di un personaggio. Intendiamoci: l’idea che chiunque possa dire qualunque cosa è il sale di una democrazia liberale che il giornalismo e le sue cronache hanno sposato, dalla parte degli uomini e delle donne della strada. Ma poi questa funzione di commento, di registro o polso della pubblica opinione ha cominciato a puntare sulla rappresentatività, l’autorevolezza dell’intervistato. Meno sull’uomo qualunque, più sul personaggio noto. Quasi che dal cerchio magico e sacro della competenza professionale o della legittimazione sociale si sia invitati ad uscire, per affrontare una parte di mondo, e i suoi significati, e portarvi tutto il peso della nostra influenza. E rendere, così, importante la banalità. Il politico parlerà di cani, il cantante di politica: e va certamente bene fin qui.
2. Bisogna però, e poi, vedere come si eserciti questa “transitività”. Se sia messa a confronto di altre, per esprimere un giudizio, una simpatia, una preferenza. O se invece, anche a voler essere generosi con il ragazzo della via Gluck, non sia altro che un diritto di tribuna che certo nasce, come detto, da un talento e da una competenza, ma appunto conquistati in tutt’altra disciplina. Per cui la gloria canora e la parola cantata ne sono infatti il passaporto, ma anche l’addio, perché di fatto – là sul palco – finiranno per evaporare e lasciare il campo alla parola parlata. Ora il palcoscenico è come usurpato da un cantante che non canta. E che parla. Ma come?
Nel tempo la povertà di linguaggio ha saputo conquistare il dominio delle pause che, nelle prestazioni iniziali, quando Celentano non si prendeva sul serio (e non era preso sul serio), erano il sintomo simpatico e fresco di una sua inadeguatezza, di una semplicità appunto poco acculturata e come tale accettata con simpatia e con autoironia. E’ stato il tempo a rendere serio quel che serio non era. A far ritenere che il vuoto della pausa sia il pieno di un’argomentazione stringente. Il tempo, che diviene poi anche una gestione sapiente dell’assenza, della mancanza, di un altro meccanismo mediatico importante capace di ri-accendere nei suoi corsi e ricorsi la curiosità per il personaggio che da tempo non vedevamo più.
Il tempo ha anche inacidito il cuore. E alimentato l’immagine e la figura del predicatore: infatti quel diritto di tribuna viene esercitato senza contraddittorio alcuno. Addirittura alimentando nell’opposizione lento-rock un’antica dicotomia del reale che è solo in apparenza scherzosa e che impone uno stigma su persone e cose. Un’interpretazione combattente che si consente, circondata dal mistero, tutte le trasgressioni – e sembra sia il fato a decidere contro chi lui si eserciterà – alimentate nel pubblico dall’attesa, dalla curiosità per quel che lui si permetterà, e quindi dal dover esserci; mentre il predicatore, vittima del meccanismo, dovrà a tutti costi ricercare un effetto di “straniamento”, dovrà andare sempre più oltre nel territorio della trasgressività. E si afferma così il paradosso secondo cui proprio l’agenzia pubblica più ossessionata, e ossessiva, con l’esercizio della dialettica delle idee nel pluralismo, abbassa ora tutte le armi. E manda in soffitta tutte le alchimie dell’Osservatorio politico di Pavia (si fa per dire), dando campo libero all’ oratoria del contro chiunque e alla qualunque. La condizione di vincere con lo share ha dunque bisogno di molte sospensioni, non ultima quella delle regole e dell’etica pubblica proprio là dove dovrebbe essere presidiata. Ed è questa l’ultima trasgressione che ci fa impazzire…
In conclusione: il meccanismo della transitività ha dunque dispiegato tutta la sua forza che è quella di farci rendere omaggio – nel nome della libertà – ad una sovranità che deriva soltanto dallo share.
FONTE: Il Comunicatore Italiano
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