Giuseppe Capogrossi (pittore, laureato in giurisprudenza) |
Intervistatore: Grazie per la disponibilità, mi dici un po’ la tua esperienza e cosa ti ha portato a fare il mediatore?
M.S.Galli: Il conflitto. Ho lavorato, e ancora lavoro, con e nel conflitto, in presentia e in assentia; con soggetti, gruppi, famiglie in cui il conflitto, nelle loro relazioni, era materia all’ordine del giorno: nella sua veste esplicita e classicamente distruttiva, come nelle sue forme latenti (spesso le peggiori). La mediazione si è rivelata, anzitutto, come una filosofia dove il conflitto sposa o, almeno a mio avviso, dovrebbe sposare, quella dimensione neutra in cui personalmente lo percepisco, cercando di viverlo nella sua veste di promotore evolutivo delle relazioni.
Intervistatore: Quale è secondo te l’ambiente, lo spazio ideale per svolgere una mediazione?
M.S.Galli: Non credo nel setting. Almeno per quel che concerne la mediazione. Penso che il mediatore debba anzitutto accompagnare le parti in un non-luogo, ossia quello spazio dal quale si cerchi il più possibile di lasciare fuori il mondo così come appare: il mondo coi suoi dettami, le sue regole, i suoi codici, le sue coercizioni, i suoi dogmi, per aiutarle a cercare dentro di loro, e rispetto alla specificità della loro relazione, le leggi più adeguate per disciplinare il conflitto che stanno vivendo, trasformandolo da distruttivo a costruttivo. In questo senso, la mediazione può essere intesa come un’utopia, un u-topos, un senza luogo che proprio nel non-luogo che il mediatore allestisce può trovare dimora. Da qui in poi è chiaro che assume un senso del tutto secondario il concetto di setting. Il setting è il mediatore.
Intervistatore: Ma avrai una tua stanza specifica per svolgere le mediazione, no? Come l’hai strutturata?
M.S.Galli: Be’, se la stanza è il mediatore, sarà fondamentale che lui per primo creda e incarni questo non-luogo. Poi certo, nella stanza che mi capita di usare abitualmente, ci sono cose fisiche e concrete: libri, cd musicali, pennarelli, fogli dove poter scrivere e disegnare, giochi di varia tipologia, immagini, riproduzioni di opere d’arte, riviste da ritagliare, insomma tutto quello che può servire per aiutare le parti a entrare in questo non-luogo, la cui porta di ingresso, è bene sottolinearlo, bascula cercando perennemente un equilibrio, tra logica e fantasia, realtà e immaginario, intuizione e ragione… Per questo si tratta di materiali che, prima di averli a disposizione fisicamente, il mediatore dovrebbe anzitutto averli dentro di sé. È il motivo per cui, tra un qualsivoglia saggio o manuale sulla mediazione e un buon libro di poesia, narrativa, una mostra d’arte, un concerto, uno spettacolo teatrale, il mediatore dovrebbe sempre scegliere uno di questi ultimi, perché sarà tanto più formativo e foriero di stimoli per aiutare le prossime persone che gli capiterà di mediare.
Intervistatore: Ti siedi sempre nello stesso posto, o lasci la libertà alle parti di sedersi dove preferiscono per poi decidere dove metterti?
M.S.Galli: Mi siedo vicino al mio bloc-notes: la lavagna a fogli mobili. Quindi, davanti a me, dispongo le sedie delle parti in modo da formare il classico triangolo equilatero e avendo cura che, tra tutte le postazioni, via sia una distanza non superiore al metroeventi e non inferiore ai quarantacinque centimetri, senza alcuna barriera, tavolo o simili, tra me e loro. Ecco, per tornare al setting, forse questo è il mio setting per la mediazione.
Intervistatore: Come mai hai scelto tale modalità?
M.S.Galli: La presenza della lavagna a fogli mobili o, comunque, di un supporto che dia la possibilità di prendere appunti pubblici, visibili a tutti i partecipanti, ritengo sia davvero fondamentale. Il mediatore, infatti, non prende appunti per sé, ma per un motivo essenziale: il suo scopo non è capire, ma fare capire. C’è un’enorme differenza. Ogni tentativo di comprendere, che l’appunto personale denuncia, comporta un qualche tipo di interpretazione cui consegue qualche tipo di indicazione o ricetta, ma questa non è mediazione. Il mediatore non fornisce ricette solutive, aiuta le parti a crearle, attraverso loro interpretazioni e loro attribuzioni di senso. Per questo credo che la scena della mediazione, prima di ogni altra cosa, sia una scena prettamente pedagogica in cui il mediatore, in perfetto assetto maieutico, accompagna le parti a capire utilizzando i modelli di comprensione e il sapere che le parti stesse gli mettono a disposizione. La disposizione delle sedie, l’assenza di un tavolo, la giusta vicinanza tra tutti gli attori della mediazione, rispondono invece alla volontà, qui così simbolicamente espressa, di rendere il più possibile simmetrici i rapporti di potere che naturalmente si instaurano in qualsivoglia relazione dove qualcuno chiede aiuto e qualcun’altro può potenzialmente offrirlo, cercando al contempo di dare il giusto e importante spazio alla parola inarticolata dei corpi, la cui importanza è decisamente sottovalutata in mediazione.
Intervistatore: Come ti prepari per affrontare una mediazione?
M.S.Galli: Non mi preparerò. Ogni preparazione, di fatto, anticipa e traduce la volontà delle parti in schemi preordinati. La scena della mediazione, invece, andrebbe contaminata il meno possibile con le pre-comprensioni del mediatore cosicché si abbassi anche il rischio che divengano pre-giudizi; questo significa che il mediatore dovrebbe avere un approccio ingenuo e il più possibile senza sapere. Per questo, anche nella mediazione commerciale, sarebbe meglio non anticipare l’incontro delle parti con la lettura di qualsivoglia documentazione o, se proprio necessario, leggerla e dimenticarsene subito dopo. Come diceva, credo Platone, il problema del testo scritto è che non può rispondere.
Intervistatore: Come e quando individui la strategia come mediatore? Come, se accade, la modifichi in corso d’opera?
M.S.Galli: Il mediatore, almeno nella mia personale concezione, lavora con il materiale linguistico, simbolico e narrativo che gli portano le parti. Le sue strategie, le sue tecniche, i suoi strumenti e dispositivi, non possono essere preconfigurati, ma partono da quel materiale e si modificano ogni volta che quel materiale muta e quel materiale muta proprio perché il mediatore se ne fa carico e comincia a trattarlo, a sgrezzarlo, a raffinarlo con le sue tecniche, le sue strategie, i suoi strumenti, i suoi dispositivi. È in questo circolo virtuoso, in questa ragnatela, che il conflitto viene catturato per trasformare quella cosa informe, sporca, incomprensibile, rabbiosa, in un oggetto di senso, un oggetto comprensibile da parte di tutti gli attori coinvolti nella mediazione.
Intervistatore: Hai dei personali “rituali” preparatori o che fai durante la mediazione?
M.S.Galli: Se intendiamo come rituale non qualcosa di scaramantico, ma una scena che si ripete, più o meno costantemente e più o meno nel medesimo modo; sì, ce l’ho. Si tratta di una vera a propria strategia che mi gioco nelle prime battute in cui la mediazione prende abbrivo, prima che le parti inizino a parlare. È il discorso che il mediatore fa alle parti, un discorso fondamentale che dà subito un’impronta precisa alla mediazione, che tesse una vera e propria ragnatela per attrarre e catturare le parti. Come negli scacchi, anche in mediazione, le prime mosse sono non solo di un’importanza vitale, ma anche le uniche realmente programmabili, poi, dalla quarta, quinta mossa in poi le variabili diventano tanto numerose da non poterle più prevedere, anzi, almeno in mediazione, da rendere controproducente ogni previsione. È perciò determinante che proprio nel discorso iniziale il mediatore inizi a tessere la sua trama e i suoi orditi tra le cui maglie le parti cominciano a intuire, vedere, assaporare, respirare l’utopia che (se vogliono) li potrà catturare.
Intervistatore: In quasi tutte le mediazioni c’è un momento di impasse, tu come lo affronti?
M.S.Galli: Be’ direi che faccio molto di più che affrontarlo: lo provoco, lo cerco, lo stimolo, faccio in modo (o almeno ci provo) che le parti entrino in questa condizione di blocco, poiché proprio quel blocco è il primo segnale del cambiamento e del buon lavoro del mediatore. Il mediatore deve anzitutto spezzare l’equilibrio inadeguato che le parti hanno generato cercando di gestire la loro relazione, poiché spezzare quell’equilibrio è l’unico modo per crearne uno nuovo più adeguato. Il blocco, l’impasse, il non saper che fare, il silenzio, stanno a significare che quella strada che, fino a quel momento, hanno percorso da soli, a testa basta, credendo fosse l’unica possibile, ora si è interrotta. Il mediatore, con le sue tecniche, vi ha eretto un muro, uno o più ostacoli che costringono le parti a fermarsi, a tentare di superarli, di aggirarli, fino a quando, a un certo punto, se la mediazione funziona, ecco che ce la fanno: superano il muro, gli ostacoli e, guarda un po’, la gran parte delle volete ce la fanno proprio perché, superando gli ostacoli, incontrano la strada dell’Altro.
Intervistatore: Che capacità dovrebbe possedere un Mediatore?
M.S.Galli: È una domanda che meriterebbe molto più spazio di quanto non abbiamo. Facciamo così, le elenco senza spiegarle e ognuno le legga come crede. Allora, a mio avviso, il mediatore deve essere, anzitutto, un operatore logico-creativo, capace di dare ordine alla confusività che regna nella testa delle parti e di stimolare opzioni alternative a quelle improduttive che li hanno condotti fino lì. Poi deve essere un fingitore: sia in quanto attore, sia inteso come colui che trasforma. Quindi deve essere, almeno nel suo studio, il più irriducibile dei relativisti. Infine, deve osare, deve provocare l’utopia e, giocare e saper sbagliare e, per farlo, deve anzitutto sbarazzarsi di qualsivoglia trucco o appendice che favorisca le sue sicurezze.
Intervistatore: Visto che i guadagni sono magri, cosa ti spinge ad affrontare ogni mediazione?
M.S.Galli: Chi ha detto che i guadagni sono magri? Se non confiniamo la mediazione al semplice disciplinare una lite tra due condomini, piuttosto che una crisi matrimoniale, un conflitto scolastico o lavorativo, ma cominciamo a comprenderla nella sua totalità, se ne afferriamo l’aspetto fondante di ogni relazione umana, i margini di intervento sono infiniti. Se poi vogliano fare i romantici, c’è un valore aggiunto che ogni mediazione restituisce: le storie. Le storie degli uomini che la mediazione riunisce (anche nel senso di “rimette insieme”, di “rinarrare”, tessendo nuove trame e nuovi orditi in cui riconoscere un senso comune) con tutta la loro carica di vitalità spesso, ahìnoi, così trascurata e malriposta in questo nostro tempo che pare aver dimenticato quanto l’umano sia un animale in cui carne e storia si con-fondono contendendosi il primato del “chi sono”.
Intervistatore: Vi sono, chiamiamoli “valori” cui ti ispiri per affrontare le mediazioni?
M.S.Galli: Diciamo che il mediatore, quale soggetto neutrale (o che si sforza di essere neutrale) non dovrebbe avere alcun valore. Egli, semmai, è una specie di camaleonte che abbraccia e fa suoi i valori delle parti che a lui si rivolgono. Si pensi a quali danni fanno quei mediatori il cui valore è la giustizia, per dire uno dei fraintendimenti più comuni sul ruolo del mediatore. Qual’è è la giustizia in cui credono? La loro? Come la disciplinano? Aiuto! No, il mediatore, semmai, è un generatore di valori, quei valori che si creano quando due sguardi con desideri diversi (le parti) si incontrano e devono far copulare, per così dire, i loro desideri affinché ne nasca uno nuovo che li rappresenti entrambi. Il mediatore, cupido, aiuta questi due sguardi ad incontrarsi e a fondersi, affinché ne discenda un terzo meticcio, il più possibile sano e portatore di benessere: quella cosa che qualcuno chiama riduttivamente “accordo”.
Intervistatore: Sempre rimanendo nei “valori”, ne individui alcuni specifici della Mediazione?
M.S.Galli: A questo punto, parlerei di vision più che di valori. Personalmente, ne individuo due irrinunciabili e propedeutici a quell’approccio alla mediazione il più possibile scevro da pre-comprensioni e pre-giudizi: una concezione del conflitto come elemento evolutivo di ogni forma vivente e, quindi, non da sconfiggere o, peggio, da evitare ma, semmai, dai ricercare, lavorando per soppiantare ogni sua forma distruttiva con configurazioni costruttive e generative e, al contempo, una posizione equidistante o, meglio, equivicina a qualsivoglia concetto di verità, comprese quelle verità non ancora formulate. Senza queste due vision credo sia impossibile fare mediazione.
Intervistatore: Quale è la tua “mission” personale?
M.S.Galli: Nel mio studio di mediatore, come nella mia vita privata, nei miei incontri, durante le mie lezioni, nelle mie relazioni personali, provo a diffondere una cultura della mediazione che vada oltre i singoli particolarismi cui può essere applicata e oltre le sue, per altro opportune, speculazioni professionali.
Intervistatore: Ora passiamo ad una domanda un po’ particolare. Vorrei che, senza pensarci troppo, mi definissi la mediazione con un simbolo, e con un altro mi indicassi il tuo essere mediatore.
M.S.Galli: Giuseppe Capogrossi è uno dei più grandi pittori del Novecento e non solo italiano, ha disegnato per buona parte della sua carriera forme a metà tra ingranaggi, dentiere, specie di dita… Immaginate due mani o, appunto, due ingranaggi che si guardano, si sfiorano dando l’illusione di potersi/volersi incastrare, cosa che a volte quasi succede ma mai totalmente. Infatti, in queste opere, questi oggetti più che altro si osservano, a diverse distanze l’uno dall’altro, segnalando così la potenzialità dell’incastro, dell’incontro, della fusione, che tuttavia mai accade totalmente. Quel che accade, invece, è che tutte queste opere denunciano una bellezza, una relazione, un’armonia e un equilibrio faticosamente raggiunto. Io ho scelto uno di questi segni, di questi incontri promessi quale logo della mia attività che non si esaurisce nella mediazione, ma la contempla nel concetto più generale di relazione.
Intervistatore: Un commento tuo personale sulla Mediazione, piena libertà di risposta...
M.S.Galli: Abbiamo appena iniziato.
M.S.Galli: Il conflitto. Ho lavorato, e ancora lavoro, con e nel conflitto, in presentia e in assentia; con soggetti, gruppi, famiglie in cui il conflitto, nelle loro relazioni, era materia all’ordine del giorno: nella sua veste esplicita e classicamente distruttiva, come nelle sue forme latenti (spesso le peggiori). La mediazione si è rivelata, anzitutto, come una filosofia dove il conflitto sposa o, almeno a mio avviso, dovrebbe sposare, quella dimensione neutra in cui personalmente lo percepisco, cercando di viverlo nella sua veste di promotore evolutivo delle relazioni.
Intervistatore: Quale è secondo te l’ambiente, lo spazio ideale per svolgere una mediazione?
M.S.Galli: Non credo nel setting. Almeno per quel che concerne la mediazione. Penso che il mediatore debba anzitutto accompagnare le parti in un non-luogo, ossia quello spazio dal quale si cerchi il più possibile di lasciare fuori il mondo così come appare: il mondo coi suoi dettami, le sue regole, i suoi codici, le sue coercizioni, i suoi dogmi, per aiutarle a cercare dentro di loro, e rispetto alla specificità della loro relazione, le leggi più adeguate per disciplinare il conflitto che stanno vivendo, trasformandolo da distruttivo a costruttivo. In questo senso, la mediazione può essere intesa come un’utopia, un u-topos, un senza luogo che proprio nel non-luogo che il mediatore allestisce può trovare dimora. Da qui in poi è chiaro che assume un senso del tutto secondario il concetto di setting. Il setting è il mediatore.
Intervistatore: Ma avrai una tua stanza specifica per svolgere le mediazione, no? Come l’hai strutturata?
M.S.Galli: Be’, se la stanza è il mediatore, sarà fondamentale che lui per primo creda e incarni questo non-luogo. Poi certo, nella stanza che mi capita di usare abitualmente, ci sono cose fisiche e concrete: libri, cd musicali, pennarelli, fogli dove poter scrivere e disegnare, giochi di varia tipologia, immagini, riproduzioni di opere d’arte, riviste da ritagliare, insomma tutto quello che può servire per aiutare le parti a entrare in questo non-luogo, la cui porta di ingresso, è bene sottolinearlo, bascula cercando perennemente un equilibrio, tra logica e fantasia, realtà e immaginario, intuizione e ragione… Per questo si tratta di materiali che, prima di averli a disposizione fisicamente, il mediatore dovrebbe anzitutto averli dentro di sé. È il motivo per cui, tra un qualsivoglia saggio o manuale sulla mediazione e un buon libro di poesia, narrativa, una mostra d’arte, un concerto, uno spettacolo teatrale, il mediatore dovrebbe sempre scegliere uno di questi ultimi, perché sarà tanto più formativo e foriero di stimoli per aiutare le prossime persone che gli capiterà di mediare.
Intervistatore: Ti siedi sempre nello stesso posto, o lasci la libertà alle parti di sedersi dove preferiscono per poi decidere dove metterti?
M.S.Galli: Mi siedo vicino al mio bloc-notes: la lavagna a fogli mobili. Quindi, davanti a me, dispongo le sedie delle parti in modo da formare il classico triangolo equilatero e avendo cura che, tra tutte le postazioni, via sia una distanza non superiore al metroeventi e non inferiore ai quarantacinque centimetri, senza alcuna barriera, tavolo o simili, tra me e loro. Ecco, per tornare al setting, forse questo è il mio setting per la mediazione.
Intervistatore: Come mai hai scelto tale modalità?
M.S.Galli: La presenza della lavagna a fogli mobili o, comunque, di un supporto che dia la possibilità di prendere appunti pubblici, visibili a tutti i partecipanti, ritengo sia davvero fondamentale. Il mediatore, infatti, non prende appunti per sé, ma per un motivo essenziale: il suo scopo non è capire, ma fare capire. C’è un’enorme differenza. Ogni tentativo di comprendere, che l’appunto personale denuncia, comporta un qualche tipo di interpretazione cui consegue qualche tipo di indicazione o ricetta, ma questa non è mediazione. Il mediatore non fornisce ricette solutive, aiuta le parti a crearle, attraverso loro interpretazioni e loro attribuzioni di senso. Per questo credo che la scena della mediazione, prima di ogni altra cosa, sia una scena prettamente pedagogica in cui il mediatore, in perfetto assetto maieutico, accompagna le parti a capire utilizzando i modelli di comprensione e il sapere che le parti stesse gli mettono a disposizione. La disposizione delle sedie, l’assenza di un tavolo, la giusta vicinanza tra tutti gli attori della mediazione, rispondono invece alla volontà, qui così simbolicamente espressa, di rendere il più possibile simmetrici i rapporti di potere che naturalmente si instaurano in qualsivoglia relazione dove qualcuno chiede aiuto e qualcun’altro può potenzialmente offrirlo, cercando al contempo di dare il giusto e importante spazio alla parola inarticolata dei corpi, la cui importanza è decisamente sottovalutata in mediazione.
Intervistatore: Come ti prepari per affrontare una mediazione?
M.S.Galli: Non mi preparerò. Ogni preparazione, di fatto, anticipa e traduce la volontà delle parti in schemi preordinati. La scena della mediazione, invece, andrebbe contaminata il meno possibile con le pre-comprensioni del mediatore cosicché si abbassi anche il rischio che divengano pre-giudizi; questo significa che il mediatore dovrebbe avere un approccio ingenuo e il più possibile senza sapere. Per questo, anche nella mediazione commerciale, sarebbe meglio non anticipare l’incontro delle parti con la lettura di qualsivoglia documentazione o, se proprio necessario, leggerla e dimenticarsene subito dopo. Come diceva, credo Platone, il problema del testo scritto è che non può rispondere.
Intervistatore: Come e quando individui la strategia come mediatore? Come, se accade, la modifichi in corso d’opera?
M.S.Galli: Il mediatore, almeno nella mia personale concezione, lavora con il materiale linguistico, simbolico e narrativo che gli portano le parti. Le sue strategie, le sue tecniche, i suoi strumenti e dispositivi, non possono essere preconfigurati, ma partono da quel materiale e si modificano ogni volta che quel materiale muta e quel materiale muta proprio perché il mediatore se ne fa carico e comincia a trattarlo, a sgrezzarlo, a raffinarlo con le sue tecniche, le sue strategie, i suoi strumenti, i suoi dispositivi. È in questo circolo virtuoso, in questa ragnatela, che il conflitto viene catturato per trasformare quella cosa informe, sporca, incomprensibile, rabbiosa, in un oggetto di senso, un oggetto comprensibile da parte di tutti gli attori coinvolti nella mediazione.
Intervistatore: Hai dei personali “rituali” preparatori o che fai durante la mediazione?
M.S.Galli: Se intendiamo come rituale non qualcosa di scaramantico, ma una scena che si ripete, più o meno costantemente e più o meno nel medesimo modo; sì, ce l’ho. Si tratta di una vera a propria strategia che mi gioco nelle prime battute in cui la mediazione prende abbrivo, prima che le parti inizino a parlare. È il discorso che il mediatore fa alle parti, un discorso fondamentale che dà subito un’impronta precisa alla mediazione, che tesse una vera e propria ragnatela per attrarre e catturare le parti. Come negli scacchi, anche in mediazione, le prime mosse sono non solo di un’importanza vitale, ma anche le uniche realmente programmabili, poi, dalla quarta, quinta mossa in poi le variabili diventano tanto numerose da non poterle più prevedere, anzi, almeno in mediazione, da rendere controproducente ogni previsione. È perciò determinante che proprio nel discorso iniziale il mediatore inizi a tessere la sua trama e i suoi orditi tra le cui maglie le parti cominciano a intuire, vedere, assaporare, respirare l’utopia che (se vogliono) li potrà catturare.
Intervistatore: In quasi tutte le mediazioni c’è un momento di impasse, tu come lo affronti?
M.S.Galli: Be’ direi che faccio molto di più che affrontarlo: lo provoco, lo cerco, lo stimolo, faccio in modo (o almeno ci provo) che le parti entrino in questa condizione di blocco, poiché proprio quel blocco è il primo segnale del cambiamento e del buon lavoro del mediatore. Il mediatore deve anzitutto spezzare l’equilibrio inadeguato che le parti hanno generato cercando di gestire la loro relazione, poiché spezzare quell’equilibrio è l’unico modo per crearne uno nuovo più adeguato. Il blocco, l’impasse, il non saper che fare, il silenzio, stanno a significare che quella strada che, fino a quel momento, hanno percorso da soli, a testa basta, credendo fosse l’unica possibile, ora si è interrotta. Il mediatore, con le sue tecniche, vi ha eretto un muro, uno o più ostacoli che costringono le parti a fermarsi, a tentare di superarli, di aggirarli, fino a quando, a un certo punto, se la mediazione funziona, ecco che ce la fanno: superano il muro, gli ostacoli e, guarda un po’, la gran parte delle volete ce la fanno proprio perché, superando gli ostacoli, incontrano la strada dell’Altro.
Intervistatore: Che capacità dovrebbe possedere un Mediatore?
M.S.Galli: È una domanda che meriterebbe molto più spazio di quanto non abbiamo. Facciamo così, le elenco senza spiegarle e ognuno le legga come crede. Allora, a mio avviso, il mediatore deve essere, anzitutto, un operatore logico-creativo, capace di dare ordine alla confusività che regna nella testa delle parti e di stimolare opzioni alternative a quelle improduttive che li hanno condotti fino lì. Poi deve essere un fingitore: sia in quanto attore, sia inteso come colui che trasforma. Quindi deve essere, almeno nel suo studio, il più irriducibile dei relativisti. Infine, deve osare, deve provocare l’utopia e, giocare e saper sbagliare e, per farlo, deve anzitutto sbarazzarsi di qualsivoglia trucco o appendice che favorisca le sue sicurezze.
Intervistatore: Visto che i guadagni sono magri, cosa ti spinge ad affrontare ogni mediazione?
M.S.Galli: Chi ha detto che i guadagni sono magri? Se non confiniamo la mediazione al semplice disciplinare una lite tra due condomini, piuttosto che una crisi matrimoniale, un conflitto scolastico o lavorativo, ma cominciamo a comprenderla nella sua totalità, se ne afferriamo l’aspetto fondante di ogni relazione umana, i margini di intervento sono infiniti. Se poi vogliano fare i romantici, c’è un valore aggiunto che ogni mediazione restituisce: le storie. Le storie degli uomini che la mediazione riunisce (anche nel senso di “rimette insieme”, di “rinarrare”, tessendo nuove trame e nuovi orditi in cui riconoscere un senso comune) con tutta la loro carica di vitalità spesso, ahìnoi, così trascurata e malriposta in questo nostro tempo che pare aver dimenticato quanto l’umano sia un animale in cui carne e storia si con-fondono contendendosi il primato del “chi sono”.
Intervistatore: Vi sono, chiamiamoli “valori” cui ti ispiri per affrontare le mediazioni?
M.S.Galli: Diciamo che il mediatore, quale soggetto neutrale (o che si sforza di essere neutrale) non dovrebbe avere alcun valore. Egli, semmai, è una specie di camaleonte che abbraccia e fa suoi i valori delle parti che a lui si rivolgono. Si pensi a quali danni fanno quei mediatori il cui valore è la giustizia, per dire uno dei fraintendimenti più comuni sul ruolo del mediatore. Qual’è è la giustizia in cui credono? La loro? Come la disciplinano? Aiuto! No, il mediatore, semmai, è un generatore di valori, quei valori che si creano quando due sguardi con desideri diversi (le parti) si incontrano e devono far copulare, per così dire, i loro desideri affinché ne nasca uno nuovo che li rappresenti entrambi. Il mediatore, cupido, aiuta questi due sguardi ad incontrarsi e a fondersi, affinché ne discenda un terzo meticcio, il più possibile sano e portatore di benessere: quella cosa che qualcuno chiama riduttivamente “accordo”.
Intervistatore: Sempre rimanendo nei “valori”, ne individui alcuni specifici della Mediazione?
M.S.Galli: A questo punto, parlerei di vision più che di valori. Personalmente, ne individuo due irrinunciabili e propedeutici a quell’approccio alla mediazione il più possibile scevro da pre-comprensioni e pre-giudizi: una concezione del conflitto come elemento evolutivo di ogni forma vivente e, quindi, non da sconfiggere o, peggio, da evitare ma, semmai, dai ricercare, lavorando per soppiantare ogni sua forma distruttiva con configurazioni costruttive e generative e, al contempo, una posizione equidistante o, meglio, equivicina a qualsivoglia concetto di verità, comprese quelle verità non ancora formulate. Senza queste due vision credo sia impossibile fare mediazione.
Intervistatore: Quale è la tua “mission” personale?
M.S.Galli: Nel mio studio di mediatore, come nella mia vita privata, nei miei incontri, durante le mie lezioni, nelle mie relazioni personali, provo a diffondere una cultura della mediazione che vada oltre i singoli particolarismi cui può essere applicata e oltre le sue, per altro opportune, speculazioni professionali.
Intervistatore: Ora passiamo ad una domanda un po’ particolare. Vorrei che, senza pensarci troppo, mi definissi la mediazione con un simbolo, e con un altro mi indicassi il tuo essere mediatore.
M.S.Galli: Giuseppe Capogrossi è uno dei più grandi pittori del Novecento e non solo italiano, ha disegnato per buona parte della sua carriera forme a metà tra ingranaggi, dentiere, specie di dita… Immaginate due mani o, appunto, due ingranaggi che si guardano, si sfiorano dando l’illusione di potersi/volersi incastrare, cosa che a volte quasi succede ma mai totalmente. Infatti, in queste opere, questi oggetti più che altro si osservano, a diverse distanze l’uno dall’altro, segnalando così la potenzialità dell’incastro, dell’incontro, della fusione, che tuttavia mai accade totalmente. Quel che accade, invece, è che tutte queste opere denunciano una bellezza, una relazione, un’armonia e un equilibrio faticosamente raggiunto. Io ho scelto uno di questi segni, di questi incontri promessi quale logo della mia attività che non si esaurisce nella mediazione, ma la contempla nel concetto più generale di relazione.
Intervistatore: Un commento tuo personale sulla Mediazione, piena libertà di risposta...
M.S.Galli: Abbiamo appena iniziato.
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