Con questa riflessione voglio proseguire il mio critico itinerare attorno al mondo della mediazione civile avviato con l'articolo "Mediazione poco civile, molto commerciale". Un ultimo, per ora, paragrafo, che non poteva certo mancare dopo la dichiarazione di illegittimità della Corte costituzionale limitatamente alla parte del decreto in cui era previsto il carattere obbligatorio della mediazione stessa.
Tutti i fans della mediazione che, come me, vedevano una esplicita contraddizione in questo obbligo che stride con il senso profondo del mediare, ora avranno di che gioire ma... ma... fino a un certo punto, poiché come sempre le cose sono più complesse di quelle che appaiono.
Infatti, in una situazione di transizione come quella italiana, in cui la mediazione si presenta come una novità osteggiata da buona parte del mondo giuridico, è riduttivo pensare alla questione dell'obbligatorietà esclusivamente per quel che concerne l'imposizione alle parti del tentativo di mediazione come condizione di procedibilità del giudizio.
Questa obbligatorietà andava forse pensata tanto più come sprono culturale, in primo luogo al mondo degli avvocati, che dovevano (a questo punto l'imperfetto è -questo sì- d'obbligo), all'atto del conferimento dell'incarico, informare l'assistito su questa modalità alternativa di affrontare le controversie, poiché, in questa costrizione, si poteva agitare un possibile volano in grado di promuovere la mediazione.
Ciò detto, dobbiamo riflettere sul fatto che, obbligo nonostante, i dati del ministero (marzo 2012) ci parlano di un bel 70% di mediazioni andate a male perché una delle parti non si è presentata, il che significa almeno due cose...
La prima è che, se tanto mi dà tanto, ora, senza obbligatorietà, quel 70% è destinato ad aumentare esponenzialmente, mandando a carte a quarantotto la mediazione stessa.
La seconda è che di questo obbligo parti coinvolte, avvocati e fors'anche giudici, se ne sono bellamente fregati, il che, oltre a interrogarci una volta in più sul senso della legalità che si respira nel nostro martoriato paese, ci deve far pensare che la strada dell'obbligo non era forse quella più adeguata.
In questo scenario, noi mediatori che siamo abituati non solo a vedere il bicchiere sempre mezzo pieno, ma ad averlo anche sempre mezzo pieno (sfruttando i suoi effluvi alcolici per immaginare soluzioni positive non prefigurate) abbiamo tuttavia l'obbligo di pensare una terza via che ci riporti a vivere la mediazione come processo culturale profondo in una società che sposa o rinnega il conflitto ma ancora fatica (e molto) a viverlo nella sua veste costruttiva.
Si colga allora la sentenza della Corte come sprono che, da una parte, eliminerà tanti furbetti (vedi sempre articolo) che, con le loro pratiche, non contribuiscono certo a valorizzare la mediazione (anche se adesso avranno un bel po' di pive nel sacco da contare -per altro gli va ancora bene visto che si approssima il Natale e la regalistica si impone) e che, dall'altra, dovrebbe invece incentivare i nostri sforzi per promuovere una "cultura della mediazione" in grado di penetrare la società nei suoi agiti profondi, a prescindere da leggi e decreti che per altro, come ben sappiamo, non pertengono strettamente al mediare.
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